Contaminazione e improvvisazione suonano la retorica di un nuovo genere a colpi di jazz.
Era il 1941 quando, al Minston’s Play House di New York, giovani musicisti dotati di una rivoluzionaria sensibilità musicale si sfidavano in sessioni libere di jazz, dando vita ad un genere interamente nuovo: il bebop. Stanchi del jazz consolidato e delle restrizioni negli arrangiamenti, bramavano di suonare affidandosi alla completa improvvisazione solistica e allo spirito del blues.
Centotrent’anni dopo, nel 2071, un gruppo di cacciatori di taglie male assortiti suona liberamente le proprie sessioni attraverso il Sistema Solare. Nasce così, dall’accattivante disegno di Toshihiro Kawamoto (Golden Boy) e dalla brillante regia di Shinichiro Watanabe (Macross Plus, Samurai Champloo), Cowboy Bebop, un’opera divenuta un genere a sé stante, pietra miliare e punto di svolta nella storia dell’animazione mondiale.
La serie, prodotta nel 1998 da Sunrise, si distingue per l’innovativa capacità di improvvisare “jazzisticamente” sulla base di classici “strumenti” di genere, connotando uno stile inconfondibile. Il risultato è un prodotto incredibilmente contaminato, in cui l’intertestualità fa da cornice all’originale accostamento di elementi diversi che vanno dalla fantascienza al western, passando per il noir e le gangster stories. Il tutto efficacemente accompagnato da una colonna sonora altrettanto eterogenea firmata Yoko Kanno & The Seatbelts, che mescola il jazz all’heavy metal e al blues.
In Cowboy Bebop i luoghi della fantascienza ci sono tutti, a partire dall’ambientazione. Costretto a spingersi su Marte e sui Satelliti di Giove e Saturno, l’uomo ha ricreato delle piccole oasi abitabili, in tutto simili alle città terrestri. Questo è lo scenario in cui si muovono il cacciatore di taglie Spike, la sua controparte Jet, e gli altri passeggeri del Bebop, la zingara Faye, la giovane Ed e il segugio Ein.
È proprio il Bebop, vascello e dimora dei protagonisti, il primo elemento a rievocare infinite reminiscenze sci-fi, basti pensare ad alcune tra le serie animate più famose come Space Battleship Yamato (Matsumoto, 1974), Captain Harlock (Matsumoto, 1978), Starzinger (Matsumoto, 1978) oppure ai lungometraggi della saga di Star Wars e Star Trek. Nella serie non mancano splendidi duelli aerei combattuti nelle profondità degli spazi siderali e realizzati attraverso un’animazione eccellente. Completando il setting fantascientifico elementi cyberpunk, dalla società ipertecnologica alle città popolate da altissimi grattacieli e vicoli illuminati da luci al neon, chiaro omaggio a Blade Runner (Scott, 1982).
Ai topoi della fantascienza si sovrappongono gli elementi della contaminazione, a cominciare dal noir. Caratterizzato da un peculiare stile visivo che si traduce nell’espressionistico uso del chiaro-scuro, nella predominanza di ombre e silhouette, luci radenti e punti di vista insoliti, il noir è soprattutto uno stato d’animo, un’atmosfera cupa e onirica, quasi irreale, dove le storie odorano di morte e mancano di valori.
I luoghi del genere sono quelli in cui si muovono Spike, Jet e Faye, tipicamente urbani, vicoli metropolitani, locali fumosi e strade lucenti per la pioggia. Sono trappole dalle quali è impossibile uscire, spazi di un mondo ingannevole e opprimente, in cui i protagonisti vivono nel cinismo, rassegnati alla loro condizione di sopravvivenza più che di esistenza. È un mondo di decadenza, senza via d’uscita e quando ne esiste una è sempre sporca. Nonostante l’umorismo che spesso si trasforma in vera e propria comicità, dando vita a delle gag esilaranti, il pessimismo pervade ogni cosa.
Ironia che si vela di amarezza connotando personaggi e situazioni. In Cowboy Bebop questa cifra stilistica è l’impalcatura che sostiene la narrazione e si accorda perfettamente con il sostrato fanta-tecnologico, a cominciare da quella nota di cupa rassegnazione e ineluttabilità del destino contro cui ogni sforzo dei protagonisti sembra vano. Un’atmosfera che si carica di connotazioni oniriche quando lo stesso Spike afferma di vivere in un sogno dal quale non riesce a svegliarsi, rivelando la sua impotenza di fronte alle trame del fato, rappresentate da Julia, femme fatale che lo trascina nell’abisso dell’autodistruzione.
La compenetrazione del noir, non solo caratterizza interi episodi come la SESSION 20: Pierrot Le Fou, ma domina anche la raffigurazione degli ambienti interni del Bebop, per la maggior parte bui o illuminati da luci soffuse e di taglio che restituiscono atmosfere inquietanti. Il luogo sicuro dei personaggi si trasforma in qualcosa di sinistro e per alcuni di loro non resta altro che dormire in continuazione, fingendo di non essere presenti.
Se noir e fantascienza sono i generi da cui Watanabe ha maggiormente attinto sul piano contenutistico, a livello stilistico e formale è lo spaghetti western a dominare la scena. Evidenti sono i richiami all’universo creato da Sergio Leone, un luogo in cui l’unica persona che riesce a diventare vecchia è il becchino, dove la violenza non è più ideologicamente giustificata, ma lo è per il solo fatto di essere l’unico mezzo di sopravvivenza.
L’universo di Cowboy Bebop è, allo stesso modo, cinico e violento, anche se rivestito da una patina di ironia, in cui i personaggi non agiscono in nome di alti ideali, ma per motivi personali o per vendetta. Questi elementi, uniti ad uno humor nero demistificante e autoparodico, sono esalati da uno stile ed un’attenzione manierista ai dettagli e alla composizione dell’immagine. I protagonisti dell’anime incarnano proprio l’antieroe di Leone, agendo spesso per interesse personale, come dimostra ripetutamente Faye.
Dal punto di vista espressivo, fattori di contaminazione western si trovano ancor prima che la narrazione abbia inizio. La sigla d’apertura è un’animazione creata ad hoc in cui i protagonisti sono raffigurati attraverso nere silhouette che si muovono entro cornici colorate. Se da un lato questo elemento richiama nuovamente il noir, dall’altro ricorda i titoli di testa di Per un pugno di dollari (Leone, 1964) in cui sagome nere su sfondo rosso si sparano in continuazione.
Tuttavia gli elementi di commistione formale più importanti sono quelli che interessano regia e composizione del quadro. Notevoli a questo proposito sono l’uso della profondità di campo e di particolari inquadrature che caratterizzano gli scontri tra Spike e l’amico/nemico Vicious, come quelli che si consumano nella SESSION 5: Ballad of Fallen Angels o SESSION 12: Jupiter Jazz (part 1), in cui il duo si affronta come due cowboy alla resa dei conti, in una schermaglia che vede l’alternanza di primissimi piani e dettagli degli occhi, non potendo che ricordare l’inconsueto duello finale a tre de Il buono, il brutto, il cattivo (Leone, 1966).
La massima tensione drammatica la si raggiunge, però, nell’ultima puntata, SESSION 26: The Real Folk Blues (part 2), in cui campi lunghi, primi piani e primissimi piani si alternano in uno splendido montaggio, altamente ritmato. Noir e spaghetti western vengono depredati di quei luoghi funzionali alla creazione di un universo che è molto più della somma delle parti, ricco di particolari e dettagli che nascondono l’essenza ultima dell’opera. Il titolo stesso della serie è la giusta summa di tutte queste componenti.
Il merito di Watanabe, non sta solo nell’aver creato contaminazione sulla base di classici “strumenti” di genere, ma è soprattutto quello di aver sapientemente svecchiato queste componenti di base, utilizzandole in maniera del tutto nuova, proponendo accostamenti ed ibridazioni assolutamente singolari che si integrano alla perfezione.
Fa parte di questa operazione quella ricercatezza per il retrò che emerge dalla raffigurazione di diversi elementi, a partire dal look di Spike, ricordando quello degli anni ’70 di Lupin e Jigen del serial Lupin III (Punch, 1971). Di indubbia impronta retrospettiva sono i duelli arerei, combattuti a colpi di mitragliatrice, in cui sembra di assistere al dog-fight dei piloti della Seconda Guerra Mondiale, dove inquadrature in soggettiva mettono in risalto l’effetto dei proiettili traccianti.
Anche se il gusto per le epoche passate trova maggiore espressione nella caratterizzazione di ambienti, locali, vicoli e città che ricordano, nelle architetture e nel traffico congestionato, quelle odierne. Niente lightsaber o pistole phaser, ma semplici armi da fuoco e spade in acciaio temperato, come se lo sviluppo tecnologico avesse investito solo alcuni ambiti a scapito di altri. Ecco allora Spike impugnare la sua Jericho 941 mentre affronta Vicious armato di katana, accostamento alquanto insolito che conferisce ai loro duelli un’impronta decisamente inconsueta.
L’ibridazione e la rivisitazione dei canoni di genere, che permea tutta la serie, investe inevitabilmente anche i personaggi, a cominciare proprio dal suo protagonista. Ben lontano dal rappresentare l’impavido eroe che solca gli spazi siderali sotto l’insegna del teschio in campo nero, Spike Spiegel incarna il cinismo e il pessimismo del personaggio noir.
Ex-sicario del Red Dragon Syndicate e tormentato dall’impossibilità di una vita migliore, è una persona disillusa e apparentemente incapace di provare emozioni. Colpisce il fatto che il focus della vicenda non si concentri sulla sua evoluzione, presentata come antefatto, ma al contrario sul percorso inverso che lo conduce all’annichilimento, attraverso un processo sapientemente misurato.
Spike è una figura dalle tinte oscure e opache, ma complessa e incredibilmente reale, che ricorda il personaggio di Amuro Rei in Mobile Suite Gundam (Tomino, 1979) anche se con le dovute differenze. Infatti il cacciatore di taglie vive una condizione più misera e malinconica, perché accompagnato da una profonda solitudine.
È solo di fronte alle avversità della vita o nell’affrontare il suo passato ed è solo quando torna a casa, a bordo del Bebop, poiché la sua incapacità di comunicare le proprie emozioni lo isola dagli altri. Una difficoltà che viene ben mascherata attraverso l’uso dell’ironia. Sarcasmo e black humor sottolineano ulteriormente il suo distacco dal mondo, la sua volontà di negare il presente.
Spike è un personaggio tragico senza mezzi termini, la cui parabola discendente è un monito volto a mostrare la strada da non seguire. Questo è un ulteriore canone dell’animazione giapponese che viene stravolto, dove il protagonista non incarna un modello di vita positivo, ma assume le sembianze di anti-modello, un esempio negativo dai cui errori è però possibile imparare.
L’eccellente caratterizzazione di Spike continua anche negli altri abitanti del Bebop, a partire da Jet Black, decorato ufficiale della ISSP, soprannominato “Black Dog”, il mastino che non molla mai, per la sua tenacia nel dare la caccia ai criminali. Proprietario del Bebop, che ama al pari dei suoi bonsai, è un burbero scontroso dal cuore d’oro, una persona matura, responsabile, l’unico idealista romantico del gruppo.
Jet si avvicina molto al personaggio noir del detective, che si ostina a voler lavorare in modo onesto, nonostante la dilagante corruzione delle forze dell’ordine. Anche lui è inesorabilmente afflitto dal proprio passato, è disilluso, ma non è cinico, al contrario continua a credere fermamente in determinati ideali, nonostante la vita metta ripetutamente alla prova la sua determinazione. Jet, al pari di Spike, è un personaggio articolato, portatore dei valori tipici della cultura giapponese, a partire dal senso del dovere e della lealtà che lo contraddistinguono.
Alla coppia di cacciatori di taglie, si aggiunge Faye Valentine, bella gitana sexy e formosa, scostumata e rozza, che al romanticismo di Jet contrappone lo spietato cinismo di chi ha trascorso malamente l’età delle illusioni. A fare da contrappunto all’opprimente passato che condiziona le vite dei suoi compagni, Faye, risvegliata da un sonno criogenico priva di memoria, non ne possiede alcuno.
Inseguita dai debitori e coinvolta in una rete di inganni e menzogne, più di tutti ha perso fiducia nel prossimo. Questa cowgirl del XXII secolo, erede ideologica della splendida Fujiko Mine (Lupin III, 1971), incarna il personaggio spaghetti western, giocatore d’azzardo, impenitente voltafaccia che agisce per interessi personali. Incapace di comunicare i propri sentimenti e stati d’animo al pari dei suoi compagni, la giovane zingara si nasconde dietro una maschera di sarcasmo disperatamente sprezzante, rifiutandosi di ammettere il bisogno di contatto umano e di affetto.
Se i tre componenti adulti del Bebop sono personaggi tormentati, disagiati e malinconici, al contrario Ed, al secolo Edward Wong Hai Pepelu Tivrusky IV, è di certo l’elemento più positivo del gruppo, è colei che porta una ventata di allegria in un ambiente altrimenti cupo e conflittuale. Estremamente giocosa e allegra, raffigurata attraverso movimenti dinoccolati, shorts e canottiera che rievocano il Conan di Miyazaki (Conan il ragazzo del futuro, 1978), ha una personalità imperscrutabile e imprevedibile che aiuta a definirne il ruolo clownesco attraverso esilaranti gag in coppia con Ein.
Anche il suo strumento viene però suonato in modo non convenzionale, poiché la comicità di cui è portatrice, non ha solo lo scopo di stemperare la tensione drammatica che spesso si respira negli episodi, ma serve a suscitare nei compagni precise reazioni, aiutandoli a portare alla luce aspetti nascosti della loro personalità.
Ultimo elemento dell’equipaggio è Ein, il cane dall’intelletto potenziato che, nonostante non si possa definire un vero e proprio personaggio, ricopre comunque un ruolo importante dal punto di vista delle implicazioni narrative. Al pari di Ed, anche le azioni del Welsh Corgie sono funzionali a mettere in risalto le reazioni e i comportamenti degli altri personaggi, oltre a dare vita a delle gag incredibilmente divertenti.
Il piccolo cane da pastore gallese, ha un ulteriore compito, quello di portare sullo schermo le componenti della tradizione giapponese, sapientemente occultate da Watanabe e Yadate in dettagli accessori o di secondo piano lungo tutta la serie. Ein ha comportamenti umani, per meglio dire giapponesi. È leale, riconoscente e grato oltre i canoni animali, ma soprattutto è pronto a sacrificarsi per i propri amici, incarnando qualità pedagogicamente genuine.
Empietà e crudeltà sono invece rappresentate dall’antagonista per eccellenza Vicious, l’ideale del mafioso da gangster story, senza scrupoli, ambizioso e tenace. L’etica e il senso del dovere, che nella tradizione animata caratterizzano anche i personaggi malvagi, sono completamente assenti in un antagonista degno del suo nome e unico nel suo genere. Imprevedibile, efferato, spaventoso, completamente fuori controllo, Vicious veste al tempo stesso i panni del cowboy, del ronin e del gangster, contribuendo ancora una volta a svecchiare l’immagine di un ruolo, quello del cattivo, che è andato cristallizzandosi nel tempo.
Le rocambolesche vicende dell’improbabile quartetto, intrecciate al cammino dell’angelo della morte, magistralmente raccontate da una sceneggiatura precisa che non lascia nulla al caso, rappresentano, tuttavia, solo la prima storia, dietro la quale se ne sviluppa parallelamente una seconda, in cui tutti loro si trovano a fare i conti con il proprio passato e con le proprie paure. Una storia nella storia, fil rouge che intesse tutti gli episodi con punti estremamente piccoli, a volte quasi invisibili, descrivendo lo sviluppo personale dei protagonisti, mettendone in luce il continuo ritardare quel processo di maturazione a cui li chiama la vita.
Piccoli punti di una cucitura che, sapientemente impuntati qua e là nel tessuto della narrazione, creano un effetto di sospensione temporale e permettono allo spettatore di focalizzare la propria attenzione sull’agire dei personaggi in situazioni assolutamente accessorie e contingenti, delineandone la personalità in modo più completo e sfaccettato.
Cowboy Bebop è una serie incredibilmente complessa, realizzata in modo sublime, quasi maniacale, costruita attraverso molteplici livelli di significazione dove l’insieme di dettagli e la concatenazione di forme espressive è più simile a quella dei generi letterari. Tale complessità, resa manifesta da una fabula articolata ma da un intreccio frammentario ed ellittico, che mette in scena la discontinuità temporale, spinge lo spettatore verso un coinvolgimento più profondo, alternando fasi di massima intensità ad altre di distensione e dilatazione psicologica.
Un concetto, questo, estremamente caro all’animazione nipponica, esteso da Watanabe alla struttura complessiva della vicenda, che restituisce quella sensazione di prolungata attesa in cui il kokoro (mente-corpo) ha modo di espandersi penetrando l’essenza della forma.
Ad aggiungere un ulteriore livello di complessità è la dilagante intertestualità che permea tutta l’opera. Le citazioni e i riferimenti al mondo del cinema, dell’animazione, della musica e del folclore sono innumerevoli (lista delle citazioni di Cowboy Bebop). Attingendo a piene mani all’iconografia di numerosi film di genere, serie televisive e alla produzione musicale, la serie trasforma l’intertestualità in vera e propria autoreferenzialità, mostrando gli elementi e le strutture del medium di cui è diretta manifestazione.
Cowboy Bebop è un prodotto superlativo, realizzato per mezzo di molteplici codici cinematografici, pensato secondo la logica seriale della televisione e costruito attraverso la performance tipica del jazz, che dà vita ad una nuova scrittura filmica, quella che si potrebbe definire, appunto, la retorica di un nuovo genere.