Come la copertina per un libro, la sigla attira, prepara, informa.
Di fronte ad un programma televisivo lo spettatore riceve dalla sigla delle informazioni sui criteri di decifrazione, sulle forme di costruzione del testo. È una sorta di sommario, un’anticipazione sintetica che permette di inquadrare la serie in modo più o meno preciso.
Nella sigla, soprattutto per quanto riguarda l’animazione, ricorrono alcuni elementi tipici che permettono di riconoscere, primi tra tutti i personaggi, raffigurati in momenti specifici. Il secondo elemento decifrabile è il genere. Se la serie è costruita all’interno di un determinato canone, la sigla mostrerà semplicemente tale appartenenza, mettendone in evidenza i codici. Il terzo dato che si può ricavare riguarda le scelte stilistiche e formali. Attraverso un’analisi dei piani, del montaggio, degli elementi che compongo il quadro è possibile anticipare la ricchezza del linguaggio che darà forma agli episodi.
In Cowboy Bebop la sigla assume un significato molto particolare, poiché attraverso una veste grafica molto singolare, svela poco o nulla relativamente ai personaggi e agli ambienti, ma rende alla perfezione quell’atmosfera cool dai sapori noir che si respira in tutti gli episodi. Cosa di meglio dunque, per presentare un lavoro d’animazione per certi versi sperimentale, di un’altra animazione che si potrebbe definire un esempio di cinema postmoderno?
Ciò che contribuisce a fare di questa sigla un elemento d’animazione singolare è il fatto che, essa non mostra alcuna anticipazione degli episodi, né presenta una descrizione compiuta di luoghi e personaggi. Watanabe è stato il precursore di quella che oggi sembra essere una tendenza nelle produzioni seriali, non solo di fantascienza, basti pensare a Star Trek: Discovery, Narcos, Better Call Saul solo per citarne alcune. Ma va ricordato che Cowboy Bebop è stato prodotto più di vent’anni fa, a conferma la sua natura pionieristica.
Sullo schermo viene proiettato un insieme di forme geometriche e di figure che si integrano e si alternano in un montaggio dinamico, il cui ritmo è scandito da Tank!, il brano composto da Yoko Kanno & The Seatbelts che dà l’idea di essere stato composto proprio durante una sessione di jazz bebop. I vari strumenti cominciano a suonare in una lenta successione intervenendo uno dopo l’altro, come se cercassero di armonizzarsi pian piano. Poi una voce comincia un breve conto alla rovescia, dando il tempo di attacco della tromba e decretando così l’inizio della sessione di jazz. Il ritmo, con archi, percussioni e tromba, diviene immediatamente incalzante, per accelerare ancora di più con l’introduzione del sassofono a circa metà della composizione, fino a che ogni strumento sembra suonare un proprio assolo che, tuttavia, si armonizza perfettamente con gli altri, restituendo un effetto brioso e allo stesso tempo dirompente.
Come un carro armato lanciato a tutta velocità distrugge qualsiasi ostacolo, penetrando nelle difese nemiche, così questo pezzo di grande jazz ha il preciso obiettivo di insinuarsi tra le difese della mente per scuotere le emozioni di chi lo ascolta e demolire qualsiasi pregiudizio dovuto a schemi e luoghi del passato. Da qui il titolo stesso del brano (carro armato).
La sigla di Cowboy Bebop ha dunque una duplice funzione, da un lato informa lo spettatore che quello che si appresta a guardare è un prodotto dal contenuto affatto scontato, dall’altro è un invito ad abbandonare qualsiasi aspettativa, lasciandosi trasportare dal nuovo ritmo, quindi non resta altro che 3, 2, 1, Let’s Jam!