Strafottente metafora del Belpaese che, attraverso l’espediente meta-narrativo per eccellenza, propone un impietoso affresco degli italiani.
In attesa della quarta stagione che giunge a distanza di undici anni dalla messa in onda del primo episodio, Boris rimane, ad oggi, la migliore serie televisiva italiana mai prodotta, un gioiello unico, impossibile da replicabile nella sua genialità. La serie porta in scena, senza mezzi termini, vizi e virtù che caratterizzano l’italiano medio, calato in quello scomodo palcoscenico rappresentato dal posto di lavoro.
Il luogo in questione, infatti, non è altro che il set di una telenovela – Gli occhi del cuore 2 – che diventa parodia di tutte le ripugnanti serie in stile Cento Vetrine grazie all’espediente meta-narrativo per eccellenza, quell’auto referenzialità in cui la televisione racconta se stessa, trasformandosi in una critica per antonomasia della tv spazzatura. Il set delinea e circoscrive lo spazio dove i personaggi di Boris trascorrono le loro giornate senza fine, in cui non esiste soluzione di continuità tra vita lavorativa e vita privata, dove la prima inevitabilmente divora la seconda.
Le speranze e le frustrazioni che ognuno di loro porta con sé danno inevitabilmente vita a situazioni paradossali e ed esilaranti. Ogni personaggio impersona l’archetipo di una ben precisa tipologia di italiano, caratterizzata a regola d’arte. Capitano al comando di questa tragicomica brigata è René Ferretti – portato sullo schermo da un magistrale Pannofino – regista disilluso che incarna quel sentimento di rassegnazione molto ben conosciuto dagli italiani. René è una persona di talento, corretta e di buona volontà, che ha purtroppo visto svanire speranze e prospettive.
È rassegnato, stanco di combattere contro un sistema che, dietro le fattezze dell’emittente televisiva, nasconde gli interessi della “Casta” interessata esclusivamente a prodotti per rincoglioniti lobotomizzati, dove il talento non viene riconosciuto. Lo sforzo di René, nel tentativo di far bene nonostante l’ipocrisia e la mediocrità che lo circondano, è encomiabile soprattutto perché consapevole della pessima qualità del materiale su cui sta lavorando. Lo dimostrano le veementi e scurrili sfuriate contro l’incompetenza degli attori o di alcuni membri della troupe, che finiscono sempre per rovinare quel poco di buono che lui cerca di fare.
Al fianco di René siedono l’aiuto regista Arianna, impersonata da una formidabile Caterina Guzzanti, dura, forte e diretta, che ha capito a sue spese come gira il mondo, in particolare quello della televisione e Alessandro, lo stagista, idealmente il vero protagonista della serie, rappresentante di un’intera generazione di giovani lavoratori precari, sottopagati, schiavizzati, umiliati e sviliti. Attorno a questi tre si muovono il resto della troupe e gli attori, un bizzarro coacervo di individui strampalati e grotteschi.
Tra i molti personaggi secondari, spicca di certo Stanis LaRochelle, egocentrico, cinico e strafottente protagonista di Gli occhi del cuore 2, portato in scena da uno straordinario Pietro Sermonti, che spinge il concetto di meta-narrazione al livello successivo, impersonando un attore che veste i panni di un medico. Con Stanis gli sceneggiatori di Boris hanno creato qualcosa di assolutamente superlativo, non solo per la caratterizzazione di un personaggio sprezzante, ironico e politicamente scorretto che non perde mai l’occasione di mostrarsi superiore agli altri, ma soprattutto per aver fatto interpretare a Sermonti una versione parodistica del dottore da lui stesso impersonato nella sit-com Un medico in famiglia.
Controparte di Stanis è Corinna, emblema dell’attriciucola insopportabilmente vanesia e piena di sé, che strizza l’occhio alle soubrette della televisione nostrana, caratterizzata alla perfezione dalla brava e bella Carolina Crescentini, capace di fornire al suo personaggio una recitazione tanto pessima da essere soprannominata “la cagna” dallo stesso René. Si potrebbe continuare ad elencare tutti i restanti personaggi, l’uno migliore dell’altro, comprese le guest star, ma Duccio Patané rimane di certo il più degno di nota.
Direttore della fotografia di Gli occhi del cuore 2, proviene dallo stesso background di René, ma a differenza del regista, che affronta con rassegnazione la propria disillusione, Duccio abbraccia la sua condizione. Si droga, è svogliato e non ha voglia di faticare. Se ne va in giro per il set a “smarmellare” luci a destra e a manca, ben sapendo che all’emittente non frega nulla della qualità perché il pubblico di lobotomizzati non è in grado di percepirla.
Duccio rappresenta quella categoria di lavoratori a cui non interessa nulla se non altro che il proprio benessere, adeguandosi ad un sistema che li paga bene per lavorare male e non lamentarsi, tanto il prodotto si vende lo stesso. Il suo atteggiamento contagia anche René che, ad un certo punto, comincia ad alternare momenti di depressione, in cui si rende conto di quanto le persone intorno a lui facciano le cose “a cazzo di cane”, ad altri in cui ritrova l’ispirazione artistica per andare avanti.
Oppresso dalle ingerenze dell’emittente e affossato dalla pochezza dei suoi collaboratori, sarà proprio durante uno di questi momenti d’illuminazione creativa che girerà il cortometraggio La formica, un sublime frammento di grande cinema, paragonabile solo a The big shave di Scorsese. Metafora nella metafora, il corto porta sullo schermo un attore nei panni di un regista televisivo che utilizza il cinema come allegoria della sua condizione. Questa è l’apoteosi della meta-narrazione, nonché pura genialità.
Boris è una serie dannatamente irriverente e caustica. Il ritmo è incalzante e non ci si annoia mai. Le situazioni che vanno oltre il limite del ridicolo e del grottesco fanno sbellicare dalle risate, ma ciò che rimane alla fine, però, è un riso amaro, consapevole di una società degradata e meschina. Un mondo in cui ciò che conta è l’interesse becero del singolo sempre pronto a fregare il prossimo, dove si premiano gli opportunisti, i lecca culo e i raccomandati, abitato da miseri ignoranti privi di capacità critica che, usando le parole dello stesso René, sembrano gridare a squarciagola: “la qualità ci ha rotto il cazzo, viva la merda!”