Patetico tentativo di adattamento seriale che si traduce in uno spettacolo da baraccone degno del Fondo delle Pulci.
The Wheel of Time, il tanto atteso adattamento dell’opera fantasy scaturita dalla mano di Robert Jordan, prodotta dagli Amazon Studios, è uno spettacolo deprimente e mediocre. Secondo le volontà di Jeff Bezos, la serie doveva essere il nuovo punto di riferimento del fantasy cinematografico e rivaleggiare con Game of Thrones, se non persino esserne superiore.
Queste, almeno, le speranze del CEO di Amazon che a conti fatti, invece, si ritrova per le mani uno spettacolo da baraccone. La volontà di superare lo show della HBO era talmente forte da spingere la sua casa di produzione a costruire nuovi studios nei dintorni di Praga, non trovando troupe e location disponibili per girare l’intera serie.
Con una macchina produttiva costruita ad-hoc, disponibilità economica praticamente illimitata e attori sotto contratto per diverse stagioni, era solo questione di tempo prima che il Trono di Spade venisse spodestato e Approdo del Re conquistata. Per la gioia di alcuni e la delusione di altri, in realtà, non è stato così. Verosimilmente mai lo sarà, nonostante Benioff e Weiss (Game of Thrones) ci abbiano messo del loro per rovinare l’ultima stagione di una serie che ha decretato un punto di svolta nel mondo delle produzioni seriali.
In The Wheel of Time, sin dal primo episodio, si percepisce un continuo senso di déjà vu, una sensazione di già visto che odora di stantio, a partire dalla sigla, sorta di ibrido mal riuscito tra gli opening di Westworld e Game of Thrones, ma accompagnata da un main theme tutt’altro che di carattere e facilmente dimenticabile. Situazioni e personaggi ricalcano, anche se in veste diversa e caricaturale, quelli di The Lord of the Rings in modo così servile che intertestualità e citazione non si possono chiamare in causa.
Si ha persino l’impressione che alcune sequenze siano state abbozzate nello stesso modo in cui Peter Jackson ha diretto i lungometraggi della trilogia dell’anello. Qualcuno potrebbe obiettare che le somiglianze con Il Signore degli Anelli derivino principalmente dal materiale prodotto da Jordan, a cui l’editore aveva chiesto di creare un’alternativa all’opera tolkeniana. Obiezione respinta in quanto si parla di un adattamento, dove quindi show runner, sceneggiatori e registi hanno la possibilità di rappresentare il materiale sorgente in modo fedele pur con originalità.
In The Wheel of Time, non solo la regia è assolutamente scolastica e priva di ogni creatività, tanto che copia – senza citare – altre produzioni, ma presenta anche incoerenze nei movimenti di macchina e nei raccordi spaziali, come se dietro la macchina da presa ci fosse un regista alle prime armi. La sceneggiatura è un colabrodo, mostra buchi ovunque, alcuni talmente grandi che disorientano, dando vita ad ellissi o azioni senza alcun senso logico.
Tuttavia, quello che fa sprofondare la produzione Amazon nelle fogne a cielo aperto del Fondo delle Pulci è proprio la recitazione da guitti della maggior parte degli attori. Eccezion fatta per Rosamund Pike, attrice di esperienza che si salva nel tentativo, comunque non riuscito, di rendere cazzuta la sua Moraine, e per qualche altro in ruoli marginali, come Peter Franzen, il cast dei protagonisti (Stradowski, Madden, Harris, Robins, Rutherford) impressiona per scarsa abilità attoriale.
Incapaci di andare oltre un’interpretazione dilettantistica, meccanica e impersonale, portano in scena dei personaggi senza alcuno spessore psicologico, inespressivi e artefatti. Sono le Nozze Rosse del pathos, la caduta dell’epicità dalla Torre Spezzata, il patibolo di ogni climax. Tutto è dozzinale, compresi i costumi e una CGI che non regge nemmeno il confronto con quella di produzioni meno costose.
Non serviva la veggenza del Corvo con Tre Occhi per capire che un prodotto di questo genere non avrebbe nemmeno lontanamente potuto scalfire le mura di Castel Granito o abbattere l’albero cuore di Grande Inverno. Bastavano un produttore esecutivo o un capo sceneggiatore, con il fegato di un nano dalle proporzioni titaniche, per sgattaiolare nel bagno dello show runner e piantargli il quadrello della scomoda verità nella pancia.