Dozzinale critica di una società malata, in cui violenza e scarso valore della vita sono i soli veicoli per comunicare disagio e degrado.
Di una banalità impressionante e dalla recitazione scadente, Squid Game cerca di portare in scena una critica alla società coreana attraverso la reminiscenza di produzioni come The Running Man (Glaser, 1987), Battle Royale (Fukasaku, 2001), The Hunger Games (Ross, 2012) e Alice in Borderland (Sato, 2020).
Il risultato è una serie che, a dispetto del nobile intento, si fatica a guardare, non tanto per la pretestuosa e grossolana violenza perpetrata, quanto per l’inconsistenza della trama, una sceneggiatura banale, situazioni scontate e personaggi stereotipati. A prescindere dal contenuto ricco di una simbologia di certo importante e di maggior significato per la cultura coreana, la messa in scena è tutt’altro che di qualità.
L’esagerazione dozzinale con cui viene enfatizzata la lotta per il denaro in una società che, nell’ultimo ventennio, ha prodotto una disparità economica enorme tra la popolazione, contribuisce esclusivamente a comunicare violenza e scarso valore della vita, invece che critica sociale. Già, poiché se per un coreano del sud il biasimo dei sistemi sociali risulta evidente, agli occhi del pubblico mondiale, privati del contesto culturale necessario, Squid Game rischia di sembrare una deviante imitazione di Takeshi’s Castle (in Italia, Mai Dire Banzai ) in cui la perversione del gioco mortale è ciò che attrae e colpisce.
Il tentativo di sconvolgere e impressionare attraverso l’uso di violenza fisica e psicologica risulta fine a se stesso, laddove non esiste drammaticità, suspense o tensione di alcun genere, perché la recitazione è talmente affettata e il plot così ovvio e scontato che è difficile trovare un motivo per proseguire la visione. Sorprende quindi il grande successo di pubblico per una produzione creata per il mercato coreano locale e lanciata su scala mondiale dal deus ex machina Netflix.
Forse il valore nascosto, per non dire sepolto, di Squid Game sta proprio nell’aver mostrato come, diventando un fenomeno mediatico globale, l’umanità viva realmente in una società di panem et circenses, che ha disperato bisogno di soldi per continuare a consumare e violenza per sublimare la propria crescente frustrazione.