Star Wars visions

L’animazione giapponese trova nuova ispirazione a migliaia di parsec di distanza, in una galassia lontana lontana…

Serie antologica costituita da nove corti, Star Wars: Visions fonde tradizione e folclore della terra del Sol Levante con gli elementi tecnologici e mistici dell’universo ideato da George Lucas. Il risultato è un’opera unica, particolare, capace di parlare contemporaneamente agli otaku e agli appassionati di sci-fi, dove commistione di generi ed intertestualità rappresentano i pilastri su cui poggiano le scelte narrative.

L’animazione giapponese non è di certo estranea alla fantascienza, al contrario essa è nota al pubblico mondiale proprio grazie alla grande popolarità raggiunta dalle serie animate di Go Nagai e dei sui “robottoni” alla fine degli anni ’70. Il connubio tra anime e sci-fi, in realtà, ha origini ben più lontane, a partire dalla messa in onda del primo episodio di Astro Boy (Osamu Tezuka) nel 1963.

L’animazione giapponese nel corso dei decenni ha sperimentato tutte le declinazioni possibili del genere fantascientifico, passando dallo steampunk al cyberpunk, dalla retro-fantascienza al fantasy tecnologico, ripetendo però troppo se stessa finendo per appiattirsi negli ultimi quindici anni. In questo nuovo sodalizio sembra invece aver ritrovato vitalità e originalità, pur costruendo tutte le nove storie intorno a riferimenti e citazioni di opere precedenti appartenenti ad entrambi gli universi. I richiami sono veramente tanti e non si limitano esclusivamente al panorama fantascientifico, ma includono chiari rimandi a Kurosawa, Kitano e Miyazaki.

Le vicende di quasi tutti gli episodi – esclusi ep. 3, 5 e 6 – si svolgono in un’ambientazione che vede le tradizioni, il folclore e le architetture del Giappone di epoca Tokugawa abilmente combinati con veicoli, astronavi e alieni che abitano i pianeti dell’universo lucasiano, in una commistione di stili e forme che trova un suo affascinante equilibrio. La capacità di portare in scena la compenetrazione tra generi in modo così estremo e al tempo stesso naturale, permette ai limiti di un canone di sfumare in quelli dell’altro, sovrapponendosi, intrecciandosi, rendendo difficile delimitarne i confini.

Nel primo episodio, The Duel, verosimilmente il migliore, la serie gioca subito le sue carte migliori, quasi volesse essere un manifesto, una sorta di dichiarazione di intenti. Il ronin protagonista ricorda il lupo solitario di Ittō Ogami (Samurai, 1973) con un droide serie R armato di whistling birds (The Mandalorian, 2019) al posto del bambino nel carretto che lancia dardi acuminati.

Lo stile dell’animazione e il bianco e nero (ad eccezione delle spade laser) non possono che richiamare alla memoria I sette samurai di Kurosawa, mentre l’ambientazione e le musiche tradizionali fanno subito pensare a Zatōichi di Kitano. Altri elementi, tra cui il character design, si ispirano liberamente a Samurai Champloo di quel Watanabe già padre del superlativo Cowboy Bebop che, a suo tempo, venne definito un genere a se stante proprio perché faceva della commistione di generi la sua caratteristica unica, distintiva e fascinosa. Siamo di fronte a quello che si potrebbe definire un processo di meta-citazione.

La colonna sonora, composta dall’alternanza di pezzi tradizionali ed evocativi motivi cyberpunk, merita una menzione particolare perché capace di rievocare le atmosfere di Akira (Otomo, 1988) e di Ghost in the Shell (Oshii, 1995) non senza causare un tremito nella Forza. La breve narrazione si muove bene attraverso il pesante confronto con un’intertestualità di proporzioni titaniche, supportata anche dalla performance delle due voci protagoniste, Lucy Liu (capo dei banditi) e Brian Tee (ronin).

Proseguendo di corto in corto le citazioni e i rimandi più o meno espliciti sono innumerevoli, anche per quanto riguarda la fantascienza. I due gemelli del terzo episodio, The Twins, sono chiara rivisitazione di Luke e Leia, ma sui due fronti opposti della Forza e racchiusi in armature vaderiane liberamente ispirate allo xenomorfo di Alien (Scott, 1979) e allo Yautja di Predator (Mc Tiernan, 1987). Nel sesto episodio, T0-B1, tutto è costruito per essere un grande omaggio all’Astro Boy di Tezuka, mentre nel quarto e settimo episodio, rispettivamente The Village BrideThe Elder, la caratterizzazione dei personaggi e la lotta tra bene e male sono di miyazakiana memoria.

In questo immenso meccanismo narrativo citazionale, le grandi protagoniste rimangono le spade laser. Riforgiate a guisa di katana, attivate mentre estratte dai foderi, identificano la figura dello Jedi (o del Sith) che ora si sovrappone e si fonde con quella del samurai (o ronin). D’altra parte, va ricordato come lo stesso Lucas si sia ispirato alla cultura nipponica nella creazione di tutto l’impianto mistico relativo alla Forza e agli Jedi in particolare.

Star Wars: Visions, pur in una forma non sempre all’altezza, è un’operazione coraggiosa che fonde due universi tanto distanti quanto meta-narrativamente vicini. Ciò che alle origini era solo fonte di ispirazione, diviene ora elemento portante, impalcatura attorno alla quale si costruiscono nuovi mondi possibili dove tutto viene riadattato, reinterpretato, riscritto perché le vie della Forza sono infinite.

 

★★★☆☆ Consigliato