Una storia di dipendenza e redenzione che si perde in una disomogenea emulsione di elementi tagliati male.
Ennesimo adattamento di bestseller autobiografico, la pellicola diretta dai Fratelli “Marvel” Russo porta sullo schermo la drammatica parabola di un giovane veterano della guerra in Iraq, attraverso una scrittura filmica particolare, dalle ottime premesse che purtroppo annega nella dipendenza da cinecomic. A metà strada tra Jarhead (Mendes 2005) e Requiem for a dream (Aronofsky 2000), ma senza lontanamente raggiungere la profondità del primo o l’intensità del secondo, questo crime-drama porta sullo schermo una serie di elementi disomogenei, finendo per risultare meno della somma delle sue parti.
La messa in scena colpisce per l’utilizzo espressivo del colore, per l’impiego di inquadrature oblique e dall’alto parallele al terreno (god’s eye view), degli sfuocati (anche se spesso artificiali) e l’uso di cartelli con un’incisiva scelta tipografica. La volontà comunicativa, non più solo legata al contenuto dell’immagine, va chiaramente oltre la semplice raffigurazione, generando un significato meta-discorsivo che introduce lo spettatore nel mondo emotivo dei personaggi. Questa connotazione eleva la visione, ma scompare troppo presto. Le oltre due ore e venti di film scivolano in una piatta sequenza lineare di eventi – a parte qualche piccolo flashback – riducendo il drama e aumentando l’action-crime.
Tom Holland (Cherry) sostiene bene la parte, dimostrando di poter andare oltre al didascalico personaggio dei fumetti. La sua recitazione è fisica, muscolosa, ma questo sforzo si perde all’interno di un plot senza ritmo, che gli fa indossare i panni di un alternativo Peter Parker prima e di un aspirante Capitan America poi, indugiando lungamente sulla parentesi della guerra, dove Cherry diviene a suo modo un eroe. Un adattamento che, nel riservare metà film ad azione e crimine, perde completamente di vista la caratterizzazione del personaggio di Emily. Così la sua vicenda scivola veloce e superficiale, con un turning point assolutamente repentino che la catapulta nel mare della dipendenza al fianco di Cherry, rientrato dall’Iraq trasformato, ma non nel super soldato.
Lo sguardo che si apre sulla condizione dei due tossicomani dovrebbe disturbare e far riflettere per le implicazioni e i significati che porta con sé, invece non colpisce, non fa male, non urta a sufficienza. I Russo non si trattengono dall’iniettare nella pellicola sprazzi di ironia in stile cinecomic che impedisce al climax drammatico di raggiungere il suo apice e di perforare lo schermo. Gli sporadici sguardi in macchina di Holland a ricercare la complicità del pubblico, l’aspetto caricaturale che assumono gli istruttori militari, le gag di complici inetti e di una cassaforte che non si vuole aprire, sono tutti elementi che cercano di strappare un sorriso allo spettatore nel tentativo maldestro e fuori luogo di alleggerire la tragedia.
Cherry vuole raccontare una storia di dipendenza e redenzione, ma soprattutto vuole essere una storia di denuncia, che mette sotto accusa un sistema socioculturale dove i giovani non hanno prospettive, le parole “ti amo” spaventano e portano al rifiuto, in cui l’arruolamento nelle forze armate offre la salvezza da una condizione di sofferenza che conduce, paradossalmente, ad un futuro di degradata e disperata solitudine. E le premesse per portare in scena questo drammatico messaggio ci sono tutte, ma ad un tratto i fratelli Russo si dimenticano di essere su un set diverso da quello di Capitan America. La pellicola forza degli elementi narrativi nel tentativo di allontanare la sofferenza di persone che, al contrario degli eroi Marvel, si iniettano un siero che non li rende né super soldati né capitani a stelle e strisce, ma li trasforma in gusci vuoti senza scudo, che anelano soltanto all’oblio e per i quali, la maggior parte delle volte, non esiste happy ending.