Omaggio ad un cinema che non esiste più.
Dopo quarant’anni di carriera Pupi Avati rende omaggio alla commedia all’italiana degli anni ’60, raccontando, come accadeva al tempo, una storia di realtà quotidiana, che riflette l’evoluzione della società attuale. Il regista bolognese non fa sconti e mette in scena una rappresentazione becera e immorale dell’Italia contemporanea, in cui il successo e la brama di denaro costituiscono l’impulso vitale di una fauna di persone meschine, calate nella più losca attualità.
Luciano Baietti (Christian De Sica), immobiliarista approfittatore e mascalzone, titolare della Baietti Enterprise, ha una relazione con Fiamma (Laura Morante), una donna bella ma passiva, quasi naif. I due si sposano dopo la nascita dei figli, ma proprio nel giorno del matrimonio, conclusa la cerimonia in maniera affrettata, Luciano se ne va, dopo essersi intestato gli appartamenti di famiglia della moglie, grazie all’aiuto della sua anima nera, il cinico Sergio (Luca Zingaretti), commercialista di fiducia.
Passano gli anni, i due bambini diventati grandi e prendono strade differenti: Paolo (Marcello Maietta), il figlio maggiore, lavora in un locale del centro e odia il padre che l’ha abbandonato, mentre Baldo (Nicola Nocella), buono e ingenuo, vive con la madre e con Sheyla (Sidney Rome), una musicista californiana in cerca di successo. Nel frattempo, gli inganni e le truffe perpetrate dalla Baietti Enterprise vengono a galla e Luciano, nel tentativo da un lato di salvare la holding messa in piedi con i soldi della moglie, dall’altro di salvare se stesso dalla galera, coinvolgerà l’ingenuo Baldo nelle sue meschine e ipocrite macchinazioni.
Avati si scaglia contro l’illegalità e l’indecenza della nostra società, fatta di approfittatori che ostentano spavalderia e arroganza, forti del “potere” loro concesso dalle truffe messe in atto. E lo fa affidando a De Sica il compito di portare sullo schermo un personaggio moralmente corrotto, un mascalzone, manovrato dal suo commercialista di fiducia e da uno stuolo di arrivisti, tra avvocati, notai e segretarie. Luciano e tutti quelli che orbitano intorno a lui sono l’emblema di una società in cui tutto è “lecito” in nome del profitto e dove ciò che conta è il benessere personale. Tutto il resto non ha importanza, arrivando persino a sfruttare il proprio figlio, ricoprendolo di menzogne, per metterlo a capo di una società con più di cinquanta milioni di debito nei confronti dello stato.
De Sica, finalmente uscito dalla campana di vetro dei cinepanettoni a cui ci ha abituati, affronta in modo convincente il ruolo più serio e impegnato della sua carriera cinematografica: è bravo a mettere in scena il dramma di un padre combattuto tra la propria salvezza e il rimorso per il figlio che sta ingannando, forse però assomigliando troppo a Ugo Tognazzi più che al padre Vittorio. A fare da contraltare al dramma c’è l’emozione, suscitata dal “figlio più piccolo”, un Nicola Nocella perfettamente calato nella parte, che, alla stregua della madre, continua ad amare e a credere con fare sprovveduto in questo padre abietto.
Battute indovinate, gusto della farsa, un’ottima dose di cinismo non bastano però a nascondere una forma non all’altezza dell’accusa. Se, infatti, il cast è indovinato, lo stile della narrazione lascia a desiderare con quelle troppe inquadrature sfuocate, un doppiaggio mal riuscito di attori che doppiano se stessi, dimenticando la presa diretta, e quelle orribili sequenze di viaggi in auto in cui anche un occhio poco esperto noterebbe lo sfondo su cui scorrono le immagini della strada. Che sia anche questo un omaggio al modo di fare film degli anni ’60?
Indipendentemente da ciò anche la storia mostra qualche impaccio: certamente così attuale, non indigna né commuove e diverte solo a tratti. Forse perché siamo abituati a sentire e vedere tutti i giorni storie come queste, in cui i furbi ce la fanno, portando con sé uno stuolo di iene arriviste, e raramente pagano il dazio. Per questo il personaggio di Fiamma, così ostinatamente innamorata di quel marito che l’ha derubata e abbandonata, non riesce a convincere, nonostante venga portato in scena in modo magistrale dalla Morante.
L’accusa morale alla società contemporanea si perde proprio nell’ingenuità esasperata, portata all’estremo, di madre e figlio, non riuscendo ad andare così fino in fondo. Viene allora spontaneo chiedersi che fine abbia fatto il figlio più grande, l’unico capace di vedere e smascherare la meschinità dei tanti Luciano Baietti.