Suggestiva elegia, narrazione sofferente: capolavoro mancato.
Scenari mozzafiato, realismo senza precedenti, un mondo altro costruito in ogni più piccolo dettaglio dal genio visionario di James Cameron: sono questi gli aspetti più travolgenti di Avatar, la nuova epopea fantascientifica che ha conquistato il pubblico mondiale. Quattro anni di lavorazione e 500 milioni di dollari sono serviti per regalarci un viaggio fantastico nel mondo di Pandora e raccontare l’incredibile avventura dell’ex-marine Jake Sully (Sam Worthington), della dottoressa Grace Augustine (Sigourney Weaver), della bella Neytiri (Zoe Saldana) e del popolo Na’vi.
Scene suggestive e insolite, per un film di fantascienza, ci trasportano in un universo lontano, in cui Cameron dà forma e vita a un’elegia che corre saldamente sulle note della tradizione americana: la conquista del West e l’avida ricerca di oro e petrolio che hanno portato allo sterminio dei pellerossa, della loro cultura e del loro mondo. Allo stesso tempo si muove tra le pieghe della modernità, rappresentando una battaglia spaziale che ricorda e denuncia ogni guerra intrapresa dagli Stati Uniti, spostando poi l’attenzione sul rapporto tra uomo e scienza e sull’incontro-scontro con il diverso, l’altro, l’alieno.
Fa da sfondo a questa struttura tematica un “miyazakiano” impianto ecologista, laddove l’ottusità e la brutalità degli uomini, arroganti conquistatori, è contrapposta all’armonia con cui gli indigeni vivono in perfetta simbiosi con la natura, rispettandola e temendola. Ma l’aspetto più straordinario è la creazione ex novo di un intero ecosistema in tutte le sue sfumature e l’idea che i Na’vi siano connessi con l’ambiente, le piante e gli animali. Questo è di certo l’elemento più poetico e al tempo stesso più coinvolgente del film.
Tutto ciò Cameron lo racconta con un senso dello spettacolo incredibile: alti una volta e mezzo una persona, con corpi sinuosi e aggraziati a sembrare l’incrocio tra un uomo e un felino, i Na’vi vivono in un’ambientazione incantevole, lussureggiante e al tempo stesso irta di pericoli. Strabilianti sono, infatti, tutte le creature del mondo di Pandora, a cominciare dai draghi, sorta di pterodattili cavalcabili, che danno vita a sequenze di volo meravigliose, complice la suggestiva profondità di campo alla Orson Wells, garantita da un 3D senza effetti stupefacenti, ma per questo concreta e verosimile.
Altrettanto incredibili sono le esplorazioni della giungla che Jake compie con il suo avatar in compagnia di Neytiri. Nulla di ciò che si vede è reale, ma al tempo stesso così vero e credibile da pensare di poterlo visitare, quasi toccare con mano. Ecco il punto di svolta cui Avatar ha condotto il cinema mondiale. Spingere il linguaggio cinematografico verso una nuova frontiera, quella in cui l’innovazione tecnica è messa al servizio delle emozioni.
Uno degli obiettivi primari del cinema, fin dai tempi della sua nascita, è stato, infatti, quello di emozionare, facendo vivere allo spettatore sensazioni indimenticabili, tentando in tutti i modi di stupirlo. E la frontiera raggiunta qui dalla “performance capture” (quel sistema che consente di creare personaggi digitali applicando sensori al corpo degli attori) riesce superbamente nell’intento.
A questo punto, però, il giudizio si divide, perché, se dal punto di vista tecnico l’opera di Cameron può essere considerata un film epocale, dal punto di vista narrativo mostra il fianco ad una critica tutt’altro che velata. Il grande entusiasmo suscitato dallo stupore visivo riceve purtroppo scarso sostegno dal modo un po’ superficiale in cui vengono trattati i tanti motivi esistenziali, nonché dal modo in cui sono caratterizzati alcuni personaggi, come la dottoressa Augustine, che meriterebbero ben altri sviluppi.
La regia scivola veloce insieme alla sceneggiatura sulle grandi tematiche che Cameron mette in scena attraverso una narrazione non certo originale. Non è tanto la mancanza di originalità del soggetto a lasciare perplessi, quanto la presenza di situazioni scontate e di personaggi stereotipati, come il Colonnello Quaritch (Stephen Lang), troppo banale, che parla per cliché. Ammirevole certamente il coraggio con cui Cameron porta alla luce l’allarmante problema ecologico che minaccia il nostro mondo, ma non è altrettanto meritevole il modo in cui lo mette in atto, riducendo tutto a uno scontro bellico tra uomini ottusi e brutali, dotati di armi dalla potenza di fuoco devastante, e indigeni rispettosi della vita, costretti a combattere con archi e frecce.
Ciò nonostante sarebbe sbagliato affossare quello che risulta nel complesso un film riuscito, capace di emozionare e travolgere lo spettatore, in cui non mancano momenti drammatici sostenuti da una colonna sonora all’altezza, che si sposa perfettamente con le emozioni suscitate dalla visione. Cameron edifica con forza e coerenza l’immagine di un mondo in cui tutte le creature sono connesse tra di loro e collegate inscindibilmente a quell’immenso essere vivente che è il pianeta. Una rappresentazione che, al di là delle debolezze narrative, ci vuole spingere ad ammirare la natura nella sua suggestiva bellezza, a rispettarla e a desiderare la comunione con essa.