C’è Alice, ma non le meraviglie.
Ambientazione goticheggiante e visionaria, atmosfera vittoriana, narrazione piatta e banale, personaggi ordinari e conformisti: sono questi gli elementi che colpiscono e al tempo stesso deludono dell’ultima fatica di Tim Burton. Dopo aver visto questo Alice in Wonderland, verrebbe proprio da dire che non tutte le ciambelle escono col buco, nemmeno ai migliori chef.
Sembra che questa volta il genio immaginifico di Burton si sia smarrito, come la stessa Alice, nel Paese delle Meraviglie, schiacciato da un lato dalla politica Disneyana, che normalizza l’universo parallelo di Alice, trasformandolo in una narrazione standard facile da vendere, dall’altro sconfitto nell’incontro-scontro con una genialità, quella di Carroll, altrettanto bizzarra e fascinosa quanto la sua.
Il film è l’adattamento cinematografico dei racconti Alice nel paese delle meraviglie e Attraverso lo specchio e quel che Alice vi trovò di Lewis Carroll. La vicenda racconta di Alice (Mia Wasikowska) che, ormai diciannovenne, non ricorda più nulla del suo incredibile viaggio nel Paese delle Meraviglie. Invitata a una festa, scopre che è stato combinato un matrimonio tra lei e un giovane nobile, Hamish Ascot. Durante il ricevimento intravede il Bianconiglio e lo insegue nella foresta, quando, a un tratto, precipita nella sua tana. Inizia così una nuova avventura in cui Alice, protagonista di una battaglia per liberare il Mondo Sotterraneo dalla tirannia della Regina Rossa, incontrerà nuovi e vecchi personaggi: il Brucaliffo, lo Stregatto, la Regina Bianca (un’impalpabile Anne Hathaway), il Fante di Cuori (Crispin Glover), la Regina Rossa (straordinaria quanto “deformata” Helena Bonam Carter) e naturalmente il Cappellaio Matto, impersonato da un eccentrico Johnny Depp.
Dopo un inizio di belle speranze, che vede la quasi ventenne Alice incarnare l’ideale della ribelle sognatrice, il film precipita insieme con lei nella tana del Bianconiglio. A causa degli adattamenti allo script, ad opera di Linda Woolverton (Il Re leone e La Bella e la Bestia), tutto si riduce all’ormai nota lotta tra Bene e Male, sublimata nello scontro tra la Regina Bianca e la Regina Rossa.
Scompaiono i favolosi giochi (come il crocket e gli scacchi), di cui rimane solo qualche reminiscenza, ma soprattutto scompaiono quasi totalmente il non sense, i giochi di parole e le invenzioni linguistiche, nucleo fondamentale dell’opera di Carroll, con cui lo scrittore-matematico si prefiggeva l’obiettivo di mettere in discussione la realtà. La stessa Alice non è la ragazzina caotica, imprevedibile e rivoluzionaria che si perde per poi ritrovarsi, al contrario è una giovane donna il cui destino nel mondo Sotterraneo corre lungo i binari di una profezia che, guarda caso, al termine della storia si compirà con tanto di lieto fine.
Come in tutti i suoi film, Burton cerca di inscenare il rifiuto all’omologazione sociale, rivendicando la propria singolarità, così come Carroll cercava di mettere in crisi l’ordine e la moralità della società vittoriana, ma questo tentativo, se pur lodevole, gli costa caro, perché non è supportato da un impianto narrativo in grado di dare il giusto peso ai personaggi e alle situazioni che dovrebbero farsi portatori di tale intento.
Così la storia procede attraverso momenti non incisivi che fanno continuamente sperare all’imprevedibile colpo di scena che non arriva mai, per giungere infine a un epilogo dichiaratamente scontato, che si risolve in una banalità impressionante. La recitazione della Wasikowska è impostata e convenzionale, priva di quella malizia innocente e adolescenziale che caratterizza il personaggio di Carroll.
Anne Hataway è assolutamente inconsistente nel portare in scena una Regina Bianca resa ancor più impalpabile da una sceneggiatura superficiale, che non le concede lo spazio per svelare quella punta di oscurità, solo evocata dal trucco, che si nasconde dietro al suo aspetto dolce e luminoso. A evitare che la ciambella, pur senza buco, si bruci irreparabilmente, interviene però lo stesso Burton, con sprazzi fantasmagorici di regia, espressione di quella logica estetica tutta personale, che trova qui la sua più alta manifestazione nell’architettura cupa e visionaria dell’ambientazione, delle scenografie e dei costumi.
Contribuiscono a salvare la pellicola una formidabile Helena Bonham Carter, che rende la sua Regina Rossa il personaggio meglio caratterizzato, capace di regalare sorprendenti siparietti in perfetto stile – quello vero e autentico – burtoniano, e un multicolore Johnny Depp, che fa del Cappellaio Matto il secondo protagonista della storia, anche se troppo iconico, forzato dentro una figura clownesca standardizzata, che gli impedisce di essere se stesso. La pellicola regala qualche momento degno di nota, qua e là, ma purtroppo nulla a che vedere con l’immaginario dello scrittore e del regista.
Ciò che rimane al termine della visione è la consapevolezza che questa Alice sembra farsi portatrice di un nuovo e altro messaggio, oltre ai tanti nascosti e ben più di peso: ogni genio creativo diventa artista ed esprime il meglio di sé quando può trasformare in realtà i propri sogni, le proprie visioni, il proprio senso del meraviglioso e dell’immaginifico, senza piegarsi alla volontà di nessuno. Solo così sarà in grado di creare “Meraviglie”.